Intervista a Stefano Manzocchi, professore ordinario di Economia internazionale alla Luiss e direttore del Centro studi della Confindustria sulle caratteristiche della ripresa economica italiana.
Luiss Open ha incontrato, in un'intervista di Marco Valerio Lo Prete, Stefano Manzocchi, professore ordinario di Economia internazionale alla Luiss e direttore del Centro studi della Confindustria. A lui abbiamo rivolto alcune domande sulle caratteristiche della ripresa economica italiana che si sta cominciando a manifestare.
Professore, anche l’Istat – dopo il Fondo monetario internazionale, l’OCSE, la Banca d’Italia, eccetera – ha appena rivisto al rialzo le sue previsioni di crescita per l’Italia, prospettando un aumento del Pil del 4,7% quest’anno e poi del 4,4% nel 2022. C’è di più oltre all’atteso effetto “rimbalzo” post-pandemia?
La crisi che abbiamo attraversato, e da cui iniziamo a uscire, è stata straordinariamente anomala, anche rispetto a recessioni pur gravi e profonde come quella finanziaria e del debito sovrano dello scorso decennio. Basti dire che quella attuale iniziò come una “crisi dell’offerta” nel gennaio 2020, quando si interruppero processi produttivi e linee di traffico commerciale e turistico dall’Oriente del mondo. Successivamente si è sommata una “crisi della domanda”, non appena i lockdown anti-contagio si sono diffusi anche in Occidente. Adesso che in Europa si ritorna lentamente alla normalità, grazie soprattutto alla campagna di vaccinazioni, sul fronte economico la domanda si riprende altrettanto lentamente. Per dare l’entità della battuta d’arresto di cui parliamo, cito un dato calcolato dal Centro studi di Confindustria: le famiglie, solo nel nostro Paese, nel 2020 hanno accumulato 26 miliardi di euro di risparmio in eccesso rispetto alla norma, a scopo precauzionale ovviamente. Ecco, questa massa di spesa “mancata” si sta lentamente scongelando.
Si attenua dunque la crisi della domanda…
Ma allo stesso tempo tornano a farsi vivi dei vincoli sul fronte dell’offerta. Parlo del rialzo dei prezzi delle materie prime, come pure del caro noli internazionali, della difficoltà di reperire componenti per alcune industrie, dai microchip alle batterie al litio. Sono colli di bottiglia che obbligano a riflettere sui modelli produttivi dominanti negli ultimi 20 anni, in particolare sul concetto di “just in time”, quindi su catene di valore concepite per risparmiare al massimo sui costi, sulle scorte, sui tempi di produzione. Adesso, per rimanere alle formule sintetiche un po’ a effetto, si ragiona sul passaggio dal “just in time” al “just in case”, quindi a un atteggiamento più prudente nel produrre e nel costruire le catene del valore.
Si stanno effettivamente “accorciando” le catene del valore nell’industria, dopo le defaillances cui abbiamo assistito durante la pandemia?
Ancora presto per dirlo. Un ripensamento, ripeto, è in corso. Poi va detto che il commercio internazionale, cresciuto a ritmi intensi dall’inizio degli anni 90 fino alla crisi finanziaria del 2008-2009, pur continuando a crescere adesso ha rallentato, anche per un ovvio e benvenuto avvicinamento del costo del lavoro in diversi Paesi. Oggi le difficoltà del modello “just in time” sono ingigantite dal fatto che le imprese hanno prima voluto esaurire le proprie scorte accumulate durante la pandemia e per alcuni beni – pensiamo soprattutto alle materie prime – esistono tempi tecnici necessari per adeguarsi nuovamente alla domanda in aumento. Comunque, soprattutto in comparti come quello tecnologico e sanitario, in Europa è da mettere in conto un tentativo di rafforzare la capacità produttiva a livello continentale, emancipandosi da un’eccessiva “dipendenza” da altre potenze economiche. Su questo sarà utile elaborare una strategia comune in Europa. Dopodiché è pur vero che accumulare scorte costa, dunque nel lungo periodo ci potrebbe essere la tentazione di tornare alla normalità dello status quo ante.
Si ricomincia a parlare d’inflazione. Fisiologia o emergenza?
L’inflazione nasce innanzitutto dai colli di bottiglia appena descritti sul fronte dell’offerta. Poi negli Stati Uniti, dove la ripresa è cominciata prima anche perché la caduta del Pil è stata inferiore che da noi, si pone un altro tema: in alcuni settori non si trovano lavoratori. Allora è lecito chiedersi: l’aumento dei prezzi è dovuto solo al rialzo temporaneo dei prezzi delle materie prime oppure sarà alimentato dal rialzo dei salari? In effetti c’è una massa di liquidità tale, nel sistema, che potrebbe sostenere un aumento prolungato dei prezzi. Comunque, per il momento, le misure espansive – fiscali e monetarie – proseguiranno, sia negli Stati Uniti che in Europa. È vero, in Germania si rafforzano le voci di quanti sollevano il problema “inflazione” e quindi mettono in dubbio il prolungamento di alcune scelte espansive, ma ci sono ragioni economiche e politiche per continuare come ora. La Commissione europea, per esempio, ha tutto l’interesse a portare a casa un risultato positivo sul rilancio dell’economia attraverso Next Generation Eu, quindi non vorrà rischiare di stroncare la ripresa con strette troppo repentine. In seno alla Banca centrale europea, le “colombe” sono in maggioranza. Negli Stati Uniti il sostegno politico a scelte espansive è saldo. E anche in Germania, con le elezioni alle porte e il rafforzamento dei Verdi, non è detto che l’austerity sia la ricetta più acclamata. In generale, poi, la transizione ecologica è uno dei più importanti driver della spesa pubblica attualmente.
Anche in Italia, come negli Stati Uniti, sarà possibile assistere al fenomeno di imprese che cercano lavoratori senza trovarli?
I dati sulle comunicazioni obbligatorie mostrano una lenta ripresa del mercato del lavoro. Tra gennaio e aprile sono state create circa 130mila posizioni di lavoro, al netto delle cessazioni, a fronte di un dato molto negativo (-230mila) negli stessi mesi del 2020. Nonostante ciò, alcune aziende già segnalano in questa settimane di non riuscire a trovare personale a sufficienza. Come è possibile? Per troppo tempo abbiamo trascurato una formazione a tutti i livelli, a partire dalla scuola superiore e in particolare dai cosiddetti istituti tecnici superiori, tale non da creare “automi” pronti a essere inseriti nel sistema industriale, ma adatta a fornire competenze matematico-scientifiche e tecnologiche che possano consentire una scelta più consapevole e libera – se vogliamo – nei processi di formazione o di inserimento nel mercato del lavoro. Così ora le prospettive di investimento sono in netto miglioramento, tornati in alcuni casi ai livelli pre-pandemia, ma in alcune nicchie si fatica a trovare operai specializzati, tecnici elettronici, alcuni tipi di ingegneri.
Nelle ultime Considerazioni generali, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è tornato a fronte di “un segmento in crescita di imprese dinamiche e innovative”, rimane un annoso problema: in tanta parte del tessuto industriale italiano, “la specializzazione in attività tradizionali e la piccola dimensione riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione”…
Il problema esiste, va affrontato, ma prima è d’obbligo una premessa. Occorre distinguere infatti tra quanto accade nel comparto manifatturiero e in quello dei servizi. L’industria manifatturiera, per tutto l’ultimo decennio e in modo costante, ha avuto tassi di crescita della produttività importanti, anche grazie a programmi di investimento come “Industria 4.0” che hanno coinvolto Stato, imprenditori e lavoratori. Nei servizi, invece, al fianco di alcune punte di innovazione, esistono settori in cui siamo molto indietro. Mi riferisco ad esempio alla galassia dei servizi professionali alle imprese: quindi contabilità, servizi legali, consulenza, eccetera. Oppure a segmenti della logistica. Fatta questa distinzione, cosa fare per affrontare il problema che comunque esiste? La Confindustria, per esempio, chiede da tempo di continuare a sostenere progetti di aggregazione, finalizzati alla crescita dimensionale delle imprese. Ricordo che “crescita dimensionale” delle aziende è spesso anche sinonimo di “crescita funzionale” delle stesse le quali in questo modo si articolano meglio e introducono al loro interno funzioni più avanzate e performanti. Dopodiché non possiamo nemmeno permetterci di perdere tout court tutte le imprese che fanno maggiore fatica a stare sul mercato, perché comunque il nostro potenziale produttivo complessivo ne soffrirebbe. Se negli ultimi 6-7 anni l’industria italiana ha raggiunto una capacità di export enorme, lo si deve anche al contributo di aziende più piccole e meno produttive. In dieci anni sono già sparite 32.000 aziende manifatturiere nel nostro Paese, in parte perché le più grandi sono cresciute e quindi abbiamo assistito a una riallocazione produttiva, però c’è da dire che la capacità complessiva manifatturiera non è necessariamente cresciuta. Insomma, la strada per procedere a un efficientamento della nostra manifattura è quella degli incentivi per crescere, fondersi o aggregarsi.