Bonomi al Corriere: Il green pass in azienda è nell'interesse di tutti. Un accordo è possibile.
“C’è un aumento di contagi legato alla variante Delta. Il Governo sta ascoltando tutti per fare un quadro della situazione e anche Confindustria ha chiesto delle valutazioni, che noi abbiamo fornito in una nota scritta.
L’obiettivo di fondo è consolidare la ripresa per recuperare il reddito e il prodotto perduti, per tutelare i posti di lavoro e perché in pandemia abbiamo contratto un debito astronomico. Oggi l’unica minaccia a una crescita sostenuta è il virus e questa minaccia va ridotta al minimo possibile.
Nel quadro di regole attuale, dunque con piena tutela della privacy e della libertà di scelta dei singoli, l’uso del green pass prevede tre criteri: il vaccino, l’immunità per aver contratto il Covid o il tampone.
Non abbiamo mai chiesto di rendere il vaccino obbligatorio per accedere al luogo di lavoro. E mai abbiamo parlato di applicazione unilaterale. Ho sentito troppi commenti a caldo, fatti senza aver letto cosa in realtà avevamo detto esattamente.
C’è stata una strumentalizzazione da parte di chi vuole rimettere in discussione i vaccini o magari vuole rivedere lo sblocco dei licenziamenti”.
Così il Presidente Carlo Bonomi in un’intervista al Corriere della Sera, in cui ha chiarito la posizione di Confindustria a proposito del green pass nei luoghi di lavoro.
“Draghi sentirà le parti e credo che ci sarà una convergenza – ha proseguito il Presidente. Fin dal primo lockdown, Confindustria ha sempre dato prova di essere attenta alla salute, siamo stati i primi a chiedere protocolli di sicurezza nelle aziende. Le soluzioni possibili sono tante”.
Ad esempio, ha ricordato Bonomi “durante il primo lockdown i ristoranti furono chiusi e con loro le mense aziendali. Ma, con l’obbligo di green pass nei ristoranti dal 6 agosto, cosa succede alle mense? Come dobbiamo comportarci, visto anche che l’Inail considera il Covid un infortunio di cui l’azienda ha la responsabilità? Se è così, servono soluzioni chiare. Non ci si può far trovare ancora una volta impreparati e vorrei vedere quali sindacati sono contrari alla tutela della salute dei lavoratori. Di certo una nuova ondata non deve fermare il lavoro e le imprese, il Paese non se lo può più permettere”, ha sottolineato il Presidente Bonomi.
Il colloquio con Federico Fubini è proseguito sui temi del lavoro e sui tagli all’occupazione annunciati di recente da alcune realtà, imputati alla fine della misura sul blocco dei licenziamenti.
“I casi di queste settimane sarebbero stati possibili anche con il divieto, perché si tratta di cessazioni di attività e chiusure di stabilimenti – ha spiegato Bonomi.
La Whirlpool di Napoli era ferma da otto mesi. Sono nodi che vengono al pettine, ma è vero che riguardano soprattutto l’auto. È in corso un processo di riorganizzazione e ridislocazione delle filiere a livello mondiale e noi in Italia non lo stiamo intercettando.
Il Ministro Giorgetti ha aperto finalmente un tavolo sull’automotive ma siamo solo all’inizio. I produttori di nuova generazione cercano competitività e specializzazioni avanzate nell’elettronica o nelle batterie al litio, che il nostro Paese non riesce a garantire. Il governo precedente non aveva messo le filiere industriali nel Pnrr; quello attuale non ne ha avuto il tempo, tranne che per l’aerospazio. Francia e Germania lo hanno fatto, perché si sono rese conto che questa situazione può metterci in grande difficoltà. A maggior ragione con l’arrivo del Green Deal europeo”, ha osservato il Presidente, richiamando l’attenzione sulle scelte strategiche che attendono il nostro Paese nella ridefinizione del futuro della manifattura alla luce del pacchetto-clima appena annunciato dall’Europa.
“Non si può non condividere il fine europeo di abbattere le emissioni di carbonio del 55% tra dieci anni e azzerarle entro il 2050”, ha detto. “Quello che sta facendo la Commissione Ue è molto ambizioso, ma se ci mettiamo troppa ideologia finiamo per mettere in crisi la manifattura europea e i suoi occupati. Fermiamoci e riparliamone, perché rischiamo di provocare un disastro industriale”, ha avvertito.
E a proposito delle stime sui costi della transizione ecologica, ha aggiunto: “Tutti stanno cercando di averle, in primis i governi. L’Europa con il 9% delle emissioni globali si è data un obiettivo molto ambizioso di riduzione di CO2, ma intanto la Cina ne rilascia il 28% e dice che non cambierà il suo trend di emissioni fino al 2028. Cina e India hanno annunciato il lancio di nuove centrali a carbone per 105 mila MegaWatt, preparandosi cosi a immettere nell’atmosfera tutta la CO2 che verrebbe risparmiata dall’Europa. Non possiamo sobbarcarci costi per nulla. Oltretutto prendendo impegni che è possibile rispettare solo comprando massicciamente tecnologia dell’Estremo Oriente” ha affermato, portando ad esempio “l’uso dei fondi del Recovery sia per comprare pannelli fotovoltaici cinesi che le batterie al litio dei motori elettrici: stiamo iniziando a svilupparle - ha detto - ma per ora dipendiamo dai produttori asiatici, che tra l’altro si sono conquistati negli anni l’oligopolio dei minerali e terre rare per realizzarle. Ci stiamo indebitando per fare la transizione ecologica, chiudiamo la nostra manifattura, estraiamo valore e ci portiamo in casa il problema – in futuro – dello smaltimento di quelle batterie”.
Alla domanda se il Ricovery Fund non possa coprire questi costi il Presidente ha risposto: “Bruxelles parla di 3.500 miliardi di euro di investimenti necessari in Europa e di questi 650 sarebbero in Italia. Ma nel Recovery di fondi pubblici da investire ci sono solo 60 miliardi. Il resto andrà spesato dal settore privato. A questi costi si aggiungono gli aggravi in bolletta per famiglie e consumatori, per i quali l’energia fossile sarà tassata di più; poi c’è la messa al bando dei motori a combustione per tutta la filiera dell’auto. Più i dazi sull’importazione di prodotto ad alto contenuto di carbonio – cemento o acciaio – a carico di chi li importa. Il governo ha però capito questi rischi”, ha osservato il Presidente.
L’Italia non si è fatta trovare impreparata a questa transizione, infatti, come ha ricordato Bonomi, “dal 2005 al 2020 in Italia abbiamo ridotto le emissioni da 470 a 287 milioni di tonnellate metriche l’anno, un calo di quasi il 40%. La gran parte del calo lo ha assicurato l’industria, dall’acciaio al trattamento dei rifiuti. Imporre ora un’ulteriore drastica riduzione a noi non è come farlo a Paesi europei che in questi anni hanno progredito di meno. Il fatto stesso che siamo un’economia manifatturiera ci penalizza”.
Infine, il colloquio ha affrontato il tema della riforma degli ammortizzatori sociali e quella delle politiche attive del lavoro, che sembra destinata a slittare all’autunno.
“Il ritardo è davvero grande – ha commentato il Presidente. Noi siamo d’accordo per un ammortizzatore universale, che valga anche per il commercio, per gli artigiani e magari per gli autonomi. Ma allora tutti devono contribuire: se non tutto subito – non sarebbe possibile – con una progressione entro quattro o cinque anni. Oggi le imprese di Confindustria versano all’Inps tre miliardi l’anno per la cassa integrazione ordinaria e ricevono prestazioni per 600 milioni. Non si può fare l’ammortizzatore universale usando l’industria come bancomat”.
Stesso ritardo anche sulle politiche attive del lavoro: “Se pensiamo di affidarci unicamente ai centri pubblici per l’impiego, buttiamo via un sacco di soldi per niente. Serve una pari dignità dell’accreditamento del settore privato. Ma soprattutto, è tempo di confrontarci tutti, subito, invece di rinviare”, ha concluso il Presidente.