I rapporti commerciali tra Italia e Russia prima della guerra valevano 20 miliardi di euro e riguardavano i settori dell’energia, dei trasporti, dell’aeronautica, dell’alta tecnologia, dei prodotti agricoli e banche
A più di due mesi dall’inizio della guerra, lo scorso 24 febbraio, l’Europa si appresta a varare il ‘sesto pacchetto’ di sanzioni contro la Federazione Russa, che potrebbe contenere lo stop all’import di petrolio, dopo il divieto, a partire da agosto 2022 – introdotto ad inizio aprile con il ‘quinto pacchetto’ - di acquistare, importare o trasferire nell’UE carbone e altri combustibili fossili solidi, se originari della Russia o esportati dalla Russia. Un ulteriore colpo per l’economia russa, che rischia così di trovarsi sempre più debole ed isolata – previsto anche un ulteriore allargamento della lista delle banche russe escluse dal sistema Swift - dopo l’uscita dal Paese di numerose aziende occidentali, tra cui molte imprese italiane.
Secondo i dati di Confindustria, la Russia rappresenta l’1,5% dell’export italiano di beni, una quota dimezzata rispetto al 2,7% del 2014, anno delle prime sanzioni imposte dall’UE a seguito dell’annessione della Crimea alla Russia, ma comunque significativa considerando che il mercato della Federazione interessa oltre 11 mila imprese nostrane, dalle più grandi a livello nazionale alle più piccole, gran parte delle quali localizzate tra Marche, Veneto ed Emilia-Romagna. Tra l’altro, ancora Confindustria sottolinea come la Russia accolga il 2,4% dello stock italiano di capitali investiti nel mondo. Numeri importanti, senza dimenticare che l’Italia è il terzo partner commerciale di Mosca.
Ma a fronte delle sanzioni applicate a livello internazionale all’economia russa, quante aziende hanno realmente lasciato la Federazione in segno di dissenso contro l’invasione dell’Ucraina? Secondo i dati della “Yale School of Management”, a metà aprile su oltre 1.000 grandi aziende occidentali, circa 750 (a metà marzo erano 400) hanno ridotto volontariamente - ma non cancellato - le proprie operazioni commerciali in Russia, nella misura minima richiesta dalle sanzioni internazionali, mentre altre – oltre 180 - continuano a portare avanti il proprio ‘business-as-usual’. Tra le aziende italiane che proseguono a fare affari con Mosca si annoverano Buzzi Unicem (produzione del cemento), Calzedonia (abbigliamento), Cremonini Group (alimentare), De Cecco (alimentare), Geox (scarpe e abbigliamento) e Menarini Group (farmaceutica), mentre a livello internazionale si segnalano fra le altre Alibaba, Asus, EDF, Emirates Airlines, Lacoste, Lenovo, Oppo, Tencent e Xiaomi. Hanno invece solamente sospeso ogni investimento, pur restando nel mercato russo e proseguendo con il proprio business, oltre 140 aziende, tra cui le italiane Barilla (sospesi tutti i nuovi investimenti e le attività pubblicitarie, con produzione limitata a pasta e pane), Campari (prosegue nelle vendite in Russia, ma ha sospeso i nuovi investimenti), Delonghi (sospese nuove spedizioni ed investimenti), Intesa Sanpaolo (sospesi i nuovi investimenti e ridotti i nuovi finanziamenti), Maire Tecnimont (il Gruppo attivo nel settore ingegneristico, tecnologico ed energetico ha sospeso le attività commerciali, mantenendo in essere la gestione dei contratti precedentemente firmati), Saipem (stop a nuovi investimenti) ed UniCredit (che ha smesso di emettere nuove carte per le banche russe) Tra le imprese straniere più conosciute in questa lista ci sono anche Pfizer, Bayer, Nestle, Huawei, Philips, Red Bull e Siemens.
Sono invece più di 110 le aziende che stanno ridimensionando alcune attività commerciali significative, pur continuando ad operare su altri rami di business, anche se minoritari. Tra le italiane Enel (ha sospeso i nuovi investimenti e sta cercando di diversificare il suo portafoglio), Ferrero (ha interrotto tutte le attività non essenziali), Iveco (ha messo in pausa le consegne) e Pirelli (ha sospeso i nuovi investimenti e ridotto i livelli di produzione). A livello internazionale in questa lista anche Allianz, Bacardi, Bosch, Continental, General Electric, Halliburton, Microsoft, Tennant, UBS e Whirlpool. Numerose (oltre 360) le aziende che invece stanno temporaneamente riducendo la maggior parte o quasi tutte le operazioni, mantenendo tuttavia aperte le opzioni di rientro. Tra queste eccellenze italiane come Ferrari, Leonardo, Moncler e Prada, in una lista molto ampia che comprende anche Adidas, Alphabet, Amazon, Apple, Bentley, Chanel, Coca-Cola, Exor, GM, IBM, Intel, McDonald’s, Nike, Nvidia, Oracle, Puma, Sony e Stellantis. Infine, come evidenzia ancora il report della “Yale School of Management”, sono quasi 300 le aziende che hanno interrotto totalmente gli accordi commerciali con la Russia e sono completamente uscite - o in uscita - dal Paese. Tra le italiane Assicurazioni Generali, ENI (che è in uscita dalla partecipazione con Gazprom per il gasdotto Blue Stream, che collega la Russia alla Turchia), Ferragamo e YOOX. Tra le altre grandi aziende a livello internazionale che si sono tirate fuori dalla Federazione russa anche ArcelorMittal, Airbnb, Booking, BP, Exxon, Heineken, Henkel, Netflix, Rolex, Shell, Spotify, Swarowsky e Vodafone.
Guerra e sanzioni imposte alla Russia frenano dunque l’Europa, in particolare l’Italia e le sue grandi aziende. Lo scenario nel nostro Paese è in peggioramento a causa del rincaro dell’energia e di altre materie prime. Per l’industria peggiorano tutti gli indicatori, come evidenziato da Confindustria, con i servizi in stallo e l’export debole. Il conflitto in Ucraina amplifica i rincari di energia e altre commodity, accresce la scarsità di materiali e l’incertezza. Sommandosi agli effetti dei contagi, ciò riduce il PIL nel 1° trimestre 2022 e allunga un’ombra sul 2°: l’andamento in aprile è compromesso e le prospettive non sono affatto rosee. Il prezzo del petrolio si è impennato, toccando un picco di 133 dollari al barile a marzo e poi assestandosi in aprile a 105 (da 74 a dicembre). Profilo simile per il gas naturale in Europa: +698% sul periodo pre-Covid. Il prezzo dell’elettricità in Italia continua a risentirne molto (+523% nello stesso periodo). I prezzi delle altre materie prime, con il conflitto, hanno accentuato i rincari, con i metalli al +86% e cereali al +77%. Per le aziende italiane ciò avrà pesanti ripercussioni in termini di ripresa, che andranno a riflettersi sul PIL nazionale. Al 2020, caratterizzato dagli effetti devastanti della pandemia in termini economici, oltre che sanitari, in cui il Prodotto interno lordo del Paese era diminuito di quasi dieci punti percentuali, aveva risposto positivamente il 2021, con un rimbalzo del +7,5% rispetto all’anno precedente, spinto dalla ripresa dell’economia e dei consumi. Ora la guerra rischia di rimescolare nuovamente le carte. Nelle stime il 2022 avrebbe dovuto registrare un’ulteriore crescita a livello economico, ma i dati del primo trimestre dell’anno non fanno ben sperare, con una perdita di PIL di mezzo punto percentuale per il nostro Paese tra gennaio e marzo, che potrebbe arrivare ad un punto percentuale se la guerra dovesse trascinarsi oltre la primavera. A frenare la ripresa avviata nella seconda metà del 2021, le tensioni sui mercati internazionali, in primis energetici, e la minore propensione al consumo.