Il Governatore Ignazio Visco è intervenuto su "Le prospettive e le necessità di riforma dell'economia italiana" presso Villa Pamphilj a Roma.
Il Governatore Ignazio Visco è intervenuto su "Le prospettive e le necessità di riforma dell'economia italiana" nell'ambito degli incontri del Presidente del Consiglio con i rappresentanti delle Istituzioni e delle Parti sociali, per un confronto sui progetti di rilancio del Paese, in corso presso Villa Pamphilj a Roma.
La diffusione in tutto il mondo del nuovo coronavirus ha causato una emergenza sanitaria gravissima e una crisi economica che non ha precedenti nella storia moderna. In molti paesi per contenere la pandemia è stato necessario limitare le libertà personali di movimento e di interazione sociale, sospendere la didattica in presenza nelle scuole e nelle università, chiudere temporaneamente molte attività produttive. Le ripercussioni sulla crescita globale sono severe.
• Già nella prima metà di aprile il Fondo monetario internazionale anticipava una caduta del PIL mondiale del 3 per cento nel 2020, contro un aumento della stessa misura previsto in gennaio. All’inizio di questo mese, la Banca mondiale stimava un calo del 5,2 per cento. La scorsa settimana l’OCSE ha diffuso scenari che indicano una discesa del 6,0 per cento nelle ipotesi meno sfavorevoli e del 7,6 per cento qualora si presentasse una nuova ondata di contagi. È stato calcolato che, quest’anno, si registrerà a livello globale la più diffusa diminuzione del reddito in termini pro capite dal 1870.
• Per l’Italia, nelle previsioni pubblicate il 5 giugno nell’ambito dell’esercizio coordinato condotto dall’Eurosistema, abbiamo effettuato un’analisi di scenario, basata su ipotesi alternative in merito alla durata e all’estensione dell’epidemia, alle sue ricadute sull’economia globale e alle sue ripercussioni finanziarie. Lo scenario di base prefigura un calo del PIL del 9,2 per cento; in un secondo scenario basato su ipotesi più pessimiste, coerenti, tra l’altro, con la necessità di contrastare possibili nuovi focolai, la diminuzione del PIL sarebbe del 13,1 per cento.
• Tutti gli scenari suggeriscono che la caduta del PIL, sia per l’Italia sia a livello globale, sarebbe concentrata – e per la maggior parte già realizzata – nella prima metà di quest’anno. Sulla rapidità e sull’intensità della successiva ripresa e, in generale, sulle prospettive per il prossimo biennio grava, tuttavia, un’incertezza molto elevata, che riguarda molteplici fattori: ‒ In primo luogo essa investe il futuro andamento di variabili di natura non economica, quali l’evoluzione dei contagi nei diversi paesi, incluso il possibile riemergere di nuovi focolai, e la durata delle misure di contenimento. Vi è, in sostanza, incertezza sui tempi e sui modi con cui si riuscirà a sconfiggere la pandemia. ‒ In secondo luogo l’incertezza riguarda la capacità delle politiche di sostegno adottate nei diversi paesi di influenzare la fiducia e i consumi delle famiglie e le aspettative e gli investimenti delle imprese. In altre parole, è assai difficile prevedere, in questa situazione, quante risorse saranno necessarie, come saranno impiegate e quale sarà il loro grado di efficacia. ‒ Infine, a un livello più profondo, non sappiamo come e quanto l’esperienza della pandemia finirà per modificare i nostri comportamenti, le abitudini di consumo, l’allocazione del possibile aumento del risparmio precauzionale. Ci si chiede quali nuovi bisogni si affermeranno, quali consuetudini saranno definitivamente superate, quali saranno le conseguenze per l’organizzazione della società e dell’attività produttiva. Prefigurare quali saranno i nuovi “equilibri” o la nuova “normalità” che si andranno determinando è molto difficile.
• Questa elevata incertezza non deve però costituire una scusa per non agire. È, al contrario, una ragione ulteriore per rafforzare da subito l’economia e per muoversi lungo un disegno organico di riforme, che per molti aspetti è già stato tracciato. Due settimane fa, nelle Considerazioni finali che accompagnano la Relazione annuale della Banca d’Italia, ricordavo le parole pronunciate da Keynes 80 anni fa, quando suggeriva possibili modi di affrontare, sul piano economico, le difficoltà di una grande guerra. In sostanza il pensiero di Keynes era che la migliore strategia per il breve termine è quella di mettere a punto un buon piano per il medio-lungo periodo (lo stesso Keynes che a chi suggeriva di aspettare il naturale operare delle forze di mercato rispondeva che “nel lungo periodo saremo tutti morti”).
• I frutti di un tale piano non potranno che vedersi col tempo, ma un progetto compiuto rende più chiara la prospettiva, influisce positivamente sulle aspettative, accresce la fiducia. L’azione di riforma può fondarsi sui punti di forza della nostra economia, che si sono andati affermando anche negli ultimi difficili anni e che è bene ricordare. Le infrastrutture di rete, nonostante ritardi e carenze in diverse aree del Paese, hanno negli ultimi mesi tenuto, consentendo a milioni di lavoratori e di studenti di proseguire le proprie attività da remoto durante tutta la fase più acuta dell’emergenza. Il settore manifatturiero è flessibile e, già dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011-12, ha rapidamente recuperato competitività, portando in avanzo la bilancia dei pagamenti. Il debito netto con l’estero è oggi pressoché nullo. La ricchezza reale e finanziaria delle famiglie è elevata e il loro debito è tra i più bassi nei paesi avanzati; quello delle imprese è inferiore alla media europea; nel complesso, il debito privato ammonta in Italia al 110 per cento del PIL, più basso persino di quello della Germania (al 114 per cento), la metà di quello che si registra in paesi come la Francia (215 per cento) o l’Olanda (258 per cento). Il sistema finanziario si è rafforzato negli ultimi anni e, nonostante i gravissimi effetti della doppia recessione, si trova in condizioni migliori di quelle in cui era alla vigilia della crisi finanziaria globale.
• Il principale problema della nostra economia è, da oltre 20 anni, quello della bassa crescita, a sua volta riflesso della debolissima dinamica della produttività. ‒ È noto che le proiezioni demografiche non sono favorevoli: pur tenendo conto dell’apporto dell’immigrazione (stimato dall’Eurostat in circa 200.000 persone in media all’anno), la popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi quindici anni. Tuttavia, proseguendo lungo tendenze simili a quelle registrate negli ultimi dieci anni, l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e l’allungamento della vita lavorativa possono permettere all’occupazione di contribuire positivamente alla crescita, per oltre mezzo punto all’anno. ‒ Per riportare la dinamica del PIL almeno all’1,5 per cento, il valore medio annuo registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria globale, servirà quindi un incremento medio della produttività del lavoro di quasi un punto percentuale all’anno.
• È un obiettivo alla nostra portata, ma conseguirlo presuppone una rottura rispetto all’esperienza storica più recente, richiede che vengano sciolti quei nodi strutturali che per troppo tempo non siamo stati capaci di allentare e che hanno assunto un peso crescente nel nuovo contesto tecnologico e di integrazione internazionale.
• I ritardi di produttività accumulati non possono essere colmati con politiche monetarie e di bilancio espansive. Queste sono, infatti, misure di stabilizzazione macroeconomica fondamentali per conseguire livelli adeguati di domanda aggregata, favorire la piena occupazione e mantenere la stabilità dei prezzi, ma non possono di per sé innalzare la dinamica della produttività nel lungo periodo.
• I provvedimenti a supporto delle famiglie e delle imprese sono stati cruciali in questa fase di emergenza per lenire i costi economici e sociali della crisi; lo saranno anche in futuro per sostenere la domanda e attenuare così gli effetti della transizione, contrastando il disagio sociale e l’allargarsi della disuguaglianza. Ma è fondamentale, adesso, stabilire il percorso di riforma più adatto per innalzare il potenziale di crescita, raccogliendo il maggior consenso possibile attorno a esso, nella consapevolezza che, spesso, i costi dei cambiamenti strutturali sono immediati, mentre i benefici maturano gradualmente, con tempi anche non brevi.
• Le risorse vanno indirizzate dove è possibile ottenere i rendimenti sociali più elevati. Va certamente recuperato il ritardo accumulato nelle infrastrutture tradizionali, da rinnovare e rendere funzionali, ma è possibile individuare almeno tre macro aree nelle quali gli interventi appaiono altrettanto urgenti.
• La prima riguarda la pubblica amministrazione, che deve essere realmente a servizio dei cittadini e delle imprese. Serve un miglioramento profondo nella qualità e nei tempi dei servizi offerti: alle necessarie semplificazioni delle procedure, di cui tanto si parla, bisogna accompagnare la giusta attribuzione di responsabilità e la loro consapevole assunzione da parte di funzionari, dirigenti e amministratori pubblici, che necessitano di riconoscimenti e motivazione: serve una burocrazia buona, non assente. E serve una giustizia più veloce, in grado di assicurare il pieno rispetto delle regole. Sono due le variabili che incidono profondamente sul funzionamento di qualsiasi azienda: la tecnologia e le risorse umane. Per la prima, l’esperienza maturata con la crisi ha indicato la strada, mostrando la necessità di accelerare la digitalizzazione di tutti i processi e di ripensarne l’organizzazione. Per la seconda, siamo oggi di fronte a un’occasione unica: il forte turnover atteso nei prossimi anni rende possibile l’ingresso di giovani motivati – e da motivare – e con competenze elevate e differenziate – e da accrescere; occorre puntare su di essi e investire nella formazione del personale.
• La seconda area è quella dell’innovazione; le misure per favorirla possono essere declinate lungo tre principali direttrici. ‒ In primo luogo lo sviluppo delle infrastrutture e dei settori ad alto contenuto innovativo. La rete fissa a banda larga ultraveloce, ad esempio, raggiunge ancora meno di un quarto delle famiglie italiane, contro il 60 per cento della media europea, e con una penalizzazione particolarmente accentuata nel Mezzogiorno; nelle valutazioni della Commissione europea l’Italia è solo al diciannovesimo posto tra i paesi dell’Unione per grado di sviluppo delle connessioni. Non possono poi non essere colte le occasioni che verranno dalla transizione, che non può che essere accelerata, verso un’economia più rispettosa dell’ambiente e con minori emissioni di gas inquinanti. ‒ In secondo luogo va migliorata la qualità del capitale umano, affrontando i problemi di fondo della scuola e dell’università: siamo al penultimo posto nell’Unione europea per quota di giovani tra i 25 e i 34 anni con un titolo di studio terziario, al primo per incidenza di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. La preparazione e la motivazione degli insegnanti sono essenziali. Gli ambienti che accolgono gli studenti non sono in molti casi sicuri; dovrebbero, invece, essere confortevoli e tecnologicamente adeguati. Bisogna poi comprendere che i problemi legati all’istruzione non riguardano solo l’offerta: anche le famiglie devono capire l’importanza dell’investimento in conoscenza, non solo sui banchi di scuola ma lungo l’arco di tutta la vita. ‒ Infine, bisogna puntare sull’elevata qualità della ricerca italiana. Lo Stato investe oggi nelle università circa 8 miliardi, la metà in rapporto al PIL rispetto a quanto fanno i paesi a noi più vicini. Lo spostamento anche solo di una frazione modesta del bilancio pubblico produrrebbe un deciso miglioramento per lo sviluppo dei giovani ricercatori e per favorire l’innovazione. Ne risulterebbe potenziata la capacità di intercettare le risorse europee destinate alla ricerca; ne trarrebbe beneficio il settore produttivo, che investe nella ricerca appena lo 0,9 per cento del PIL, contro l’1,7 per cento della media dei paesi dell’OCSE. L’assunzione di nuovi ricercatori prevista nel decreto del 19 maggio scorso costituisce una significativa discontinuità rispetto alle tendenze del passato.
• La terza area da considerare riguarda la salvaguardia del nostro patrimonio naturale e storico-artistico, che costituisce l’identità stessa dell’Italia. La crisi del settore turistico ne ha reso immediatamente percepibile la rilevanza anche economica. Esso va preservato e reso fruibile in maniera sicura e sfruttando maggiormente le nuove tecnologie affinché, dopo la pandemia, possa tornare a contribuire allo sviluppo, con accresciuto rilievo.
• Le risorse pubbliche per finanziare questi interventi e favorire un impiego produttivo di quelle private possono venire da una ricomposizione del bilancio pubblico, da un recupero di base imponibile, da una riduzione del premio per il rischio sui titoli di Stato, da un uso pragmatico e accorto dei fondi europei.
• Al netto degli interessi, la spesa pubblica italiana è in linea con quella media dell’area dell’euro, anche se il peso di quella pensionistica è più elevato ed è destinato a crescere ancora, come in molti altri paesi dell’Unione europea, sulla spinta dell’invecchiamento della popolazione. Anche il livello delle entrate fiscali è allineato alla media degli altri paesi, pur se è più elevato il cuneo fiscale sul lavoro. Ciò che più ci differenzia dalle altre economie avanzate è l’incidenza dell’economia sommersa, dell’illegalità e dell’evasione fiscale, che si traduce in una pressione fiscale effettiva troppo elevata per quanti rispettano pienamente le regole. Le ingiustizie e i profondi effetti distorsivi che ne derivano si riverberano sulla capacità di crescere e di innovare delle imprese; generano rendite a scapito dell’efficienza del sistema produttivo. Un profondo ripensamento della struttura della tassazione, che tenga conto del rinnovamento del sistema di protezione sociale, deve porsi l’obiettivo di ricomporre il carico fiscale a beneficio dei fattori produttivi.
• La sostenibilità del debito pubblico non è in discussione, ma il suo elevato livello in rapporto al prodotto è alimentato dal basso potenziale di crescita del Paese e al tempo stesso ne frena l’aumento. Crescita economica e politiche di bilancio prudenti e rivolte all’investimento dovrebbero invece rafforzarsi l’una con le altre, in un circolo virtuoso che il nostro paese è in grado di attivare, favorendo la discesa dell’onere degli interessi sul debito.
• Le difficoltà italiane sono amplificate nel Mezzogiorno. Nelle regioni meridionali deve innanzitutto migliorare l’ambiente in cui le imprese operano, in primo luogo con riferimento alla tutela della legalità. È più ampio il ritardo tecnologico da colmare, inferiore l’efficacia delle politiche pubbliche: il 75 per cento delle “opere incompiute” è localizzato in queste regioni, alle quali fa capo solo il 30 per cento dei lavori pubblici. Il Mezzogiorno sta subendo un impoverimento per l’emigrazione delle risorse più giovani e preparate, in massima parte verso il Centro Nord del Paese; è una tendenza che comporta costi sociali immediati e che condiziona negativamente le prospettive di sviluppo.
• Sono stati numerosi, nel tempo, i tentativi di affrontare la “questione meridionale”, con interventi tanto diversi nell’impostazione quanto deludenti nei risultati. Lo 6 sviluppo del Mezzogiorno è essenziale per quello del Paese: nelle regioni meridionali vive circa un terzo della popolazione italiana e si produce quasi un quarto del PIL. Le misure volte a sostenere la crescita dei territori in ritardo non devono distorcere gli incentivi di imprese e lavoratori, ostacolando l’impiego delle risorse nei modi più produttivi; bisogna intervenire sui fattori alla base del ritardo, non ci si può affidare solo ai tentativi di compensarlo con trasferimenti monetari. Gli effetti sull’economia meridionale di un’azione di rinnovamento dell’amministrazione pubblica, della scuola e delle infrastrutture, tradizionali e innovative, possono essere rilevantissimi.